“Morire, dormire, sognare forse” è uno spettacolo atipico che scivola sul confine delle emozioni contrastate degli esseri umani, dove i protagonisti sono intenti in un viaggio che li vede sempre fermi nel medesimo posto.
La produzione è orientata, con la sfumata leggerezza di variazioni di registro minimali, tra il teatro dell’assurdo dove riecheggia il Beckett di “Aspettando Godot”, citazioni delle opere shakespeariane e atmosfere di un teatro contemporaneo rarefatto nel tempo e nello spazio. I personaggi con il loro “attendere” raccontano il tempo che passa, la vita e la morte, il desiderio di conoscere e di esprimere il mondo interiore con le sue paure e le sue felicità.
“Morire, dormire, sognare forse” è una riflessione per l’essere umano come uomo, come artista e come sognatore. Ogni uomo deve compiere un viaggio, durante e dopo la vita, che lo conduce alla verità e alla conoscenza; un viaggio che ogni uomo deve fare per conoscere il suo posto nell’esistenza; un viaggio che ogni figlio deve compiere per distaccarsi dai propri genitori. Si incontrano sul palco situazioni di quotidianità assurda che travalicano le epoche e gli spazi. Il desiderio di vivere insieme, la ricerca di una felicità spezzata con l’avanzare dell’età, i figli, la sofferenza e la morte, unico elemento che l’ha vinta su tutti gli altri.
Un carillon che si ripete uguale a se stesso, nella ricerca spasmodica di una felicità che non è raggiungibile perché imbrigliata in un luogo, dove tutto è cominciato e dove tutto continua a ripetersi. Sul palco si avvicendano due uomini su una scena a tratti surreale, i dialoghi sono minimi e si intuisce lo stato d'animo dei protagonisti attraverso uno studio dei gesti, un silenzio che grava sulle situazioni, mentre affiora il senso di angoscia che è alla base del testo. Le parole hanno un tono di irrealtà, i personaggi sono anonimi e rappresentano tipi qualunque della nostra vita. Il disegno della regia curata ed attente esalta il tono minimalista e il ruolo del silenzio alternato alle musiche nordiche, facendo di questo spettacolo una pagina di poesia da osservare ad occhi occhi chiusi per ascoltarla col cuore.
In questo lavoro, Luca Ferri svela i dispositivi umani e mette il fuoco su quella visceralità emotiva che soggiace alle relazioni, permeate di un’esigenza vorace e insaziabile di conoscere, essere amati e diventare grandi abbandonando gli affetti infantili. Si tratta di scenari complessi, agitati da tensioni sotterranee e pulsioni irrisolte, che gli attori in scena restituiscono attraverso la verità della loro recitazione.
Le immagini di “Morire, dormire, sognare forse” sembrano fotogrammi di uno storyboard, a tratti le luci calano come in un battito di ciglia. Il risultato dell’operazione di Ferri evoca i toni del paradosso teatrale tra il teatro “vero” e quello dell’”assurdo”, si appropria del gelo emanato dalla scrittura rarefatta, striandolo tuttavia di una coloritura surreale, beckettiana. L’atmosfera sospesa concede ampi spazi vuoti entro i quali il lavoro sugli attori risulta componente necessaria. A partire dalle relazioni essenziali, lo spettacolo costruisce un discorso onirico sulle assenze, calibrato nelle sue componenti sceniche e attorali, connotato da uno sguardo lucido ma mai impietoso sullo srotolarsi indocile del tempo, nella prospettiva di figli, genitori, esseri umani. In gioco c’è la monotonia dell’esistenza, dove le frasi non pronunciate e gli sguardi acquistano un’importanza superiore a quella del testo stesso. Ognuno riesce a vedere un proprio spettacolo, a proiettarlo sulla propria vita.
Una produzione Anà-Thema Teatro
Regia Luca Ferri
Assistenza alla regia Tiziana Guidetti e Massimiliano Kodric
Con Luca Marchioro, Fabio Bonora, Alberto Fornasati e Luca Ferri
Scene Fabio Bonora
Costumi Emmanuela Cossar
Foto: Luca D'Agostino